Venerdì 21 marzo21.30
Vie héroïque
Un film di Joann Sfar. Con Eric Elmosnino, Lucy Gordon, Laetitia Casta, Doug Jones, Anna Mouglalis.
Mylène Jampanoï, Sara Forestier, Kacey Mottet Klein, Deborah Grall, Philippe Katerine
Biografico, - Francia, USA 2010.
E’ un lavoro realizzato nel 2010, e in Italia è raggiungibile solo attraverso un’attenta ricerca: si tratta di un film più simile ad un documentario, che ad un racconto, anche perché in 130 minuti il regista non svela tutta la vita di Serge Gainsbourg, ma entra solo nei dettagli di alcuni suoi passaggi più clamorosi. E’ necessario, per cui, conoscere – e amare – il cantautore francese, per apprezzare questo filmato, che consiglio vivamente. Gainsbourg è famoso in tutto il mondo per gioielli pop come “Bonnie & Clyde” o “Je t’aime…moi non plus”, e per le tormentate storie d’amore con le bellezze assolute di un tempo, da Jane Birkin a Brigitte Bardot. Lui è il ritratto del genio ribelle, del viveur dalla barba lunga che passa le notti a bere pastis 102 e la mattina a comporre capolavori indiscussi. Gainsbourg nel film è ritratto nella sua Parigi, il ragazzo ebreo al tempo dell’invasione nazista. Ci sono dettagli di casa sua (per me, meta di pellegrinaggio ogni volta che passo da quelle parti, così come il cimitero di Montparnasse dove è sepolto), in 5 bis rue de Verneuil . E ci sono retroscena sul mito trasversale, venerato da anziani e giovani, e pure da dj techno che hanno confezionato centinaia di versioni dance dei suoi brani più famosi.
Gainsbourg nasce a Parigi nel 1928, e muore nel 1991, eroso dall’alcol e dagli abusi. E’ un musicista, un compositore, un uomo disperato, un autolesionista, è libero da schemi di ogni sorta, è un artista maledetto, un grande seduttore. L’ho conosciuto quando un’estate di alcuni anni fa mi fermai distrattamente a guardare un video, che si trova facilmente su you tube. Una prima serata in un programma francese di fine anni 80, che poteva essere il nostro Fantastico del sabato sera: lui era l’ospite di punta, e arriva sul palco ubriaco fradicio. Il presentatore, che poteva essere il nostro Pippo Baudo, non sapeva come gestirlo: lui alternava sigarette Gitanes a Gouloises, rigorosamente senza filtro. E diceva tutto quello che gli passava per la testa. Poi, cantava. E quando cantava, incantava chiunque. Iniziai a seguirlo, a cercare i suoi cofanetti con tutto il suo repertorio, e iniziai a tradurre i testi delle sue canzoni.
Pensando al Novecento che se ne stava per andare via, mi sembrava di avere tra le mani i versi dei poeti maledetti, quei cantori che, come Baudelaire e Verlaine, hanno saputo radiografare il disagio e la trasformazione di una società malata e contraddittoria. Accostare le atmosfere dei “Fiori del male” baudelairiani a quelle del canzoniere di Serge (più di trecento canzoni tra edite e inedite) non mi sembra azzardato. Anzi, è ancora una volta una dimostrazione che le contraddizioni, il dolore e la ricerca dell’essere viaggiano sul filo della memoria. Nelle composizioni del cantautore francese i registri cambiano, anche se una patina di anidride solforosa le avvolge: la solitudine del “Poinçonneur des Lilas” (la mia preferita, tanto che l’ho tradotta pure come introduzione di un mio libro), l’amplesso della scandalosa “Je t’aime…moi non plus”, gli amori morti della “Chanson de Prevert”, la libertà attraverso la morte di “Bonnie et Clyde” o il legame tra padre e figlia di “Lemon incest” sono alcuni tasselli che completano l’opera vasta di artista che ha saputo esprimersi anche con la pittura e dietro la macchina da presa. Nel 78 in Jamaica compose, insieme a Peter Tosch, una versione reggae della Marsigliese, e fece nascere un putiferio colossale in Francia: per questo, nel suo paese, il suo personaggio è vivo più che mai, e divide ancora oggi l’opinione pubblica.
Gainsbourg, restando fuori dalla mischia, ha un canzoniere che con il tempo è diventato impeccabile osservatorio di un’epoca e del clima di una società: davanti alla quale lui si è sempre posto con il solito atteggiamento di strafottenza. “Sono un ladruncolo, un gran falsario, un depresso forsennato, fiero, maldestro e violento”, è l’epigrafe di trent’anni di splendida carriera.
Da GreisonAnatomy.com
Venerdì 28 marzo
Tributo a Yukio Mishima
" Ogni artista che aspira al vero, al bene e al bello come realtà ultima della sua ricerca è fatalmente dominato dal desiderio di forzare l'arduo acceso del mondo dei demoni, e questo pensiero, che sia apparente o dissimulato, esita tra la paura e la preghiera."
Kawabata Yasunari
(da una lettera a Mishima Yukio)
" Quando puoi scegliere tra morire e non morire, è meglio morire."
Yamamoto Tsunetomo
Hagakure
ore 21.00
Yukoku
(Patriottismo)
Scritto, diretto ed interpretato da: Yukio Mishima
e con: Yoshiko Tsuruoka
Paese: Giappone Anno: 1966 Durata: 29 minuti
Yukoku è l'unica opera cinematografica diretta da Yukio Mishima.
Viscerale, profetico, questo corto di 29 minuti mette in scena alcune delle tematiche care allo scrittore: la fedeltà, il codice etico dei samurai, la patria, il sangue.
Mishima si dimostra decisamente capace dietro la macchina da presa; dichiaratamente teatrale, due attori, lui e la moglie, un solo interno, minimale ed austero, come si addice al tema trattato. Ma allo stesso tempo caldo e appassionato, caldo come l'amorevole addio che i due si
scambiano, caldo come il sangue che sgorga a fiotti dal doloroso squarcio.
Profetico, dicevo. Perchè Yukio Mishima, pochi anni dopo, il 25 Novembre 1970, commetterà pubblicamente seppuku dopo aver simbolicamente occupato una caserma col suo piccolo esercito personale ed aver incitato alla rivolta i militari locali.
Per questo motivo, tutte le copie in circolazione della pellicola sono state ritirate e distrutte per espressa volontà della moglie di Mishima. Le poche copie sopravvissute furono quelle che giravano nei festival internazionali. Un cortometraggio raro ed irripetibile. Buona visione.
Ore 21.30
Mishima
(una vita in quattro capitoli)
Un film di Paul Schrader. Con Ken Ogata, Kenji Sawada, Yasosuke Brando, Koichi Sato, Ryo Ikebe.
Sachiko Hidari, Hiroshi Mikami, Gô Rijû, Setsuko Karasuma, Haruko Kato, Junkichi Orimoto,Hiroshi Katsuno, Naoko Otani, Toshiyuki Nagashima,
durata 120' min. - USA, Giappone 1985.
L'interesse di Paul Schrader per il Giappone non deve stupire. Basterebbe pensare al suo interesse per il cinema di Ozu, ma non dimentichiamo che il fratello, Leonard, non solo era vissuto ed aveva studiato in Giappone, ma lì aveva messo anche su famiglia.
Paul non ha mai negato nemmeno un interesse per la letteratura nipponica e soprattutto per uno scrittore, Mishima Yukio (三島 由紀夫). In effetti ben poche tra le vite dei romanzieri nipponici così ben si adattano al cinema, quanto la vita di Mishima, e non tanto perché questo scrittore abbia avuto chissà quale vita avventurosa, ma bensì perché Mishima stesso ha contribuito a far sì che la propria vita diventasse la sua opera d'arte più importante, un'opera che potremmo definire non tanto realistica, quanto piuttosto di fiction.
Effettivamente la vita di Mishima, e le sue azioni, nonostante non possano che definirsi un po' "controverse" esercitano di sicuro non poco fascino, pertanto era scontato che la sua vita diventasse prima o poi un film. In realtà, in tal senso, il rapporto dello scrittore coi media è strano. Sì è, in Giappone, sempre parlato della sua opera, ancora oggi, ma si ha quasi timore a parlare della sua vita. Il Giappone ha messo, anche per volontà della famiglia, una sorta di veto sulle indagini sulla vita dello scrittore, ma naturalmente questo vale per il Giappone, non per il resto del mondo.
Il titolo del film parla chiaro. Paul, assistito nella sceneggiatura dal fratello Leonard, decide di narrare l'ultimo giorno di vita di Mishima, e lo fa attraverso le sue opere, ripartendone la narrazione in quattro capitoli: 1) Beauty (Bellezza); 2) Art (Arte); 3) Action (Azione); 4) Harmony of Pen and Sword (Armonia tra penna e spada) e tre romanzi: Il Padiglione d'oro, La casa di Kyoko e A briglia sciolta, che in realtà sono cinque, visto che buona parte della vita dell'autore nipponico è estrapolata dalle Confessioni di una maschera, mentre sul finale appare anche una citazione tratta da Sole e acciaio15.
Il capolavoro di Schrader inizia con Mishima che si sveglia, consapevole che questo giorno, 25 novembre 1970, cambierà per sempre la propria vita. Si prepara accuratamente e si avvia all'incontro con quattro dei più fedeli studenti dell'associazione da lui creata, il Tate no kai [(楯の会), Società degli Scudi], e si dirige al palazzo del ministero della difesa. Ha intenzione di sequestrare il ministro e poi di arringare le Forze di Autodifesa giapponesi [Jieitai (自衛隊)]18 a riprendere pienamente il proprio ruolo di esercito militare a difesa dell'Imperatore. Se dovesse fallire, ha pensato a tutto, allora non esiterebbe a darsi la morte col seppuku (切腹)19.
Schrader coglie l'attimo per raccontare allora della vita di Mishima, attraverso i suoi lavori più autobiografici, attraverso episodi salienti della sua vita, attraverso le sue pulsioni tenute spesso sopite (l'omosessualità) ed attraverso le sue opere.
Il Padiglione d'oro è una metafora della sua infanzia (Mishima, giovane affetto da balbuzie e gracile fisicamente), La casa di Kyoko della sua maturità (ilbody-building e la vita spesa per l'arte), mentre A briglia sciolta rappresenta i suoi ideali (la fedeltà all'imperatore e la "bella morte").
Il passato di Mishima è reso attraverso l'uso del bianco e nero, mentre il presente, cioè il 25 novembre, attraverso l'uso del colore. Importantissimo in tal senso sono i contributi del direttore della fotografia, John Bailey e della designer Ishioka Eiko (石岡 瑛子)20, che ha curato le straordinarie scenografie e i costumi del film. Di grandioso impatto, inoltre, la scelta di utilizzare una determinata tonalità di colore per ognuna delle sezioni ispirate dai romanzi: verde/oro per Il Padiglione d'oro, sfumature aranciate, tra rosa e grigio, per La casa di Kyoko, e vermiglione e nero per A briglia sciolta. A questo grandiosa mise en scène si aggiunge un commento sonoro passato alla storia, opera di uno dei più grandi compositori del nostro secolo, Philip Glass21. Nel 1985, al Festival di Cannes, John Bailey, Ishioka Eiko e Philip Glass hanno vinto la Palma d'oro per il "Miglior contributo artistico", grazie al loro lavoro in Mishima, a Life in Four Chapters.
Straordinari anche gli interpreti del film, tra tutti l'eccellente Ogata Ken (緒形拳)22, qui in quella che secondo alcuni è la più grande interpretazione della sua carriera, che interpreta lo scrittore con grande forza e dignità.
(cit. Asian world)
Venerdì 4 aprile 21.30
Caravaggio
Un film di Derek Jarman. Con Nigel Terry, Sean Bean, Tilda Swinton, Spencer Leigh, Robbie Coltrane.
Nigel Davenport, Michael Gough, Noam Almaz, Dawn Archibald, Jack Birkett, Sadie Corre,Garry Cooper, Dexter Fletcher, Jonathan Hyde, Emile Nicolaou, Cindy Oswin, Simon Fisher-Turner
Drammatico, durata 97' min. - Gran Bretagna 1986.
Pennellate. Alla deriva. Michele delle ombre. Mani che lavorano il legno. Mani che scaldano un corpo. Mani ruvide che affondano i remi nell’acqua. Mani morbide si muovono dando ordine. "Le stelle sono i diamanti dei poveri".
Nella prigione di un corpo malato e agonizzante ‘Michele delle ombre’ evade nel ricordo, ripercorrendo la sua vita segnata da genialità e sregolatezza.
Non è morente sulla spiaggia di Porto Ercole, si trova disteso in un letto all’interno di una casa assistito dal suo giovane servo Jerusalem, compagno della sua solitudine, testimone muto della sua esistenza.
Personaggio creato per consolare ed assistere senza la possibilità di emettere giudizio.
La malattia è una costante nell’anima e nella carne. Nella sofferenza sembra che la creatività si intensifichi e diventi l’unico scopo da inseguire fino alla morte.
Inevitabile specchio, riferimento autobiografico. Derek Jarman scopre di essere sieropositivo nel 1986. Lotterà contro la malattia fino al 1994 continuando, nonostante le gravi complicazioni derivanti dall’AIDS, la sua attività registica e sostenendo le lotte contro la legislazione anti-gay.
Jarman oltre ad essere un regista è anche un pittore e in questo c’è un’altra congiuntura d’immedesimazione con l’artista lombardo.
Il film Caravaggio esce proprio nel 1986 dopo sei anni di gestazione.
E’ un ritratto immaginario, una personale lettura di Michelangelo Merisi ma fedele alla sua personalità e alle sue emozioni più nascoste.
Si snoda sul doppio binario pittura e amore, giocando sulla continua citazione di gesti, movimenti, luci rubate al possente visionarismo caravaggesco.
La sua vita reale, a confronto, sembra un debole appiglio temporale di fronte a quello che poi lo renderà immortale. Ecco perché il regista si permette di stravolgere e ricreare gli eventi, per riuscire a focalizzare ed attualizzare in modo più efficace l’indole dell’artista.
Jarman attraverso il suo cine-teatro dipinge Caravaggio prima come un ragazzo di strada bello e dannato che si prostituisce per poter dipingere e poi da adulto lo trasforma in un ambiguo dandy ottocentesco sotto la protezione del Cardinal del Monte.
Le improvvise e fugaci incursioni moderne come luce elettrica, motociclette, macchine da scrivere, riviste, provocano un black out nel decorso delle immagini. Un senso di finzione che si vuol dichiarare allo spettatore.
Perché qui non è importante raccontare correttamente una storia, informare sugli eventi.
Il meccanismo è stato aperto, lo scopo è di esprimere libere considerazioni su Caravaggio, rendere attuale la sua poetica e i suoi turbamenti interiori.
Uno spirito creativo che osa sulla riflessione e l’indagine attraverso il linguaggio cinematografico.
La chiave di lettura verte sull’esplicita sessualità usata come merce di scambio che nasconde una feroce ricerca dell’affettività.
I personaggi sono espressi più dal corpo che dalla parola. Ognuno è definito da un pathos estetico essenziale, ben studiato, che lo racconta perfettamente.
L’unica voce che s’impone per tutto il tempo e riassembla il passato col presente è quella fuori campo dello stesso artista che sembra echeggiare dal suo letto di morte, per raccontarci la sua storia prima che sopraggiunga il silenzio della fine.
Sguardi intensi e provocanti rubati ai giovani soggetti dipinti da Caravaggio dalla spavalda fisicità sensualmente volgare.
Ragazzi di strada incontrati in una Roma popolana in cui lui stesso s’immergeva quotidianamante, dividendosi tra la frequentazione delle imbalsamate corti dimore dei suoi illustri committenti e le bettole malfamate dove assaporava la violenza delle passioni. Si sporcava con quel sangue che poi trasmutava in pigmento sulla tela.
Sempre sul limite tra vita e morte. E’ la vitale crudezza dell’essere da descrivere cronisticamente senza alternative. Quella vita violenta di nessuna speranza nessuna paura che arriverà fino a Pasolini.
Ricchezza e povertà si mescolano nella scena della festa in maschera in un rituale di seduzione e morte celebrato dal Pontefice-Satiro sullo sfondo del memento mori.
Un personaggio curioso è il critico scettico che tratta con cinico snobbismo le opere di Caravaggio. Lo ritroveremo protagonista in un tableaux vivants ispirato alla Morte di Marat di Jacques-Louis David, concentrato a scrivere una stroncatura sull’opera “Amore Vittorioso” .
Non è concesso sapere se gli sarà riservata la stessa fine del rivoluzionario francese pugnalato a morte in una vasca da bagno. Una frecciata rivolta alla categoria della critica?
Non esistono esterni. Nel film le azioni si svolgono tutte in una continua successione d’interni metafisici che richiamano il tipico spazio caravaggesco.
Un vuoto mistico. Per accogliere Dio bisogna svuotarsi di tutti gli elementi terreni.
Fondali scuri, rosso, ruggine, marrone su cui si susseguono tableaux vivants fino a quello finale della Deposizione, dove il corpo del Cristo diventa quello del Caravaggio morto, osservato dal se stesso bambino che inconsapevolmente assiste ad una premonizione del suo futuro.
Jarman non sfrutta un semplice flash back. I piani temporali si stratificano prendendo in considerazione anche la dimensione onirica. Tutto si ricongiunge in un moto ciclico di Nascita- Morte-Rinascita che rispecchia il valore mitico dell’artista che non può avere una fine fisica ma persiste contaminando per sempre il percorso della storia.
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