"Ispiratosi alle molteplici civiltà e alla diversità delle culture, a esse attingendo le sue tradizioni spirituali e materiali, il popolo arabo palestinese è cresciuto in armonia con la sua terra. Sui passi dei profeti che si sono succeduti su questa terra benedetta, è dalle sue moschee, dalle sue chiese e dalle sue sinagoghe che si sono levate le lodi al Creatore e i cantici della misericordia e della pace."
dalla Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Palestina, 15 novembre 1988
Scritta dal poeta Mahmud Darwish, la dichiarazione d'indipendenza è proclamata dall'OLP, riconosciuto dalla comunità internazionale quale legale rappresentante del popolo palestinese, e letta da Yasser Arafat ad Algeri. Da allora questo bellissimo documento rimane lettera morta. Quel territorio palestinese, non meglio specificato nei suoi confini, vive ora la sua terza Intifada.
Ticket To Jerusalem c'introduce nella quotidianità palestinese per mostrarci una lotta realizzata non attraverso le armi, ma affermando il primo e fondante elemento che caratterizza l'esigenza di un popolo senza terra: la conservazione e la rinascita di una cultura, la ricerca di una identità che vuol dire dignità.
Jabeb e Sanah sono una coppia palestinese che vive in un campo profughi nei pressi di Ramallah. Sanah è volontaria in un pronto soccorso della Red Crescent Society; Jabeb è un proiezionista che ogni giorno deve superare i check point che lo separano dalle scuole dove proietta vecchi film d'animazione per bambini. Lunghe e interminabili file di persone si accalcano in quei blocchi dell'esercito israeliano, ed ogni volta ognuno mette la sua giornata nelle mani di uomini che, per una repentina e diseguale ragione politica e militare, possono autorizzare o impedire il procedere della loro esistenza. Jabeb non intende deludere i bambini che lo attendono e il trasporto del proiettore e delle bobine dei film si fa sempre più difficile (raramente in macchina, di solito con mezzi di fortuna). Atto "sovversivo" che incide molto più di qualsiasi altro, interferisce nelle coscienze dell'infanzia e s'insinua nei loro atti futuri; significa sostituire ai sassi il lancio della propria memoria storica nel futuro, significa tentare di preparare una generazione ad un agire non motivato dalla disperazione, donargli il loro naturale status d'infanzia, bambini tra bambini.
Venerdi 13 febbraio
19.30 cena a base di
cous cous & harissa
21.30
Omelia rosso sangue
Opera polifonica dal libro dei Salmi e dalla Terra di Palestina
scritto da Domenico Guarino
interpretato da Safaà Warawra e Saverio Tommasi
durata 10 minuti
A seguire
L’AQUILONE
(The Kite; Le cerf-volant)
Randa Chahal Sabbag – Libano 2003 – 80’- vers.orig. arabo sott. italiano
Venerdi 20 febbraio 21.30
The Color of Paradise
(Rang-e khoda)
Regia: Majid Majidi
Sceneggiatura: Majid Majidi
Cast: Hossein Mahjoub, Mohsen Ramezani, Salameh Feyzi, Farahnaz Safari
Durata: 90 Anno: 1999
vers.orig. farsi sott. italiano
Venerdi 27 febbraio 21.30
Children Of Heaven
(Bacheha-Ye aseman)
regia: Majid MajidiSceneggiatura: Majid Majidi
Cast: Mohammad Amir Naji, Amir Farrokh Hashemian, Bahare Seddiqi
Anno: 1997 Durata: 89
vers.orig. farsi sott. italiano
A causa dello smarrimento di un paio di scarpe della sorella un ragazzino iraniano si può trovare a nove anni ad affrontare dilemmi etici immersi in un flusso di eventi quotidiani, semplici al punto da trovarsi infitto nello sconcerto per la vittoria. La questione del cinema nel paese di Kiarostami e Makhmalbaf sta tutta in questa dicotomia tra intensità di spunti poetici che sconfinano nel ritratto morale e i modi di raccontare radicati nella tradizione neo-realista.
Gli elementi del film si affastellano tutti nei primi minuti. La scarpa in riparazione dal ciabattino è la primissima inquadratura e possiede una notevole potenza evocativa: un'immagine-affezione collocata all'inizio, e con quella lunghezza, si inserisce nella tradizione del neorealismo, facendo assurgere la scarpa al rango di un'icona attorno alla quale si viene a creare una coorte di elementi che l'indulgere lungamente sulle mani callose e sull'ago nella tomaia non introducono soltanto l'argomento, ma servono ad anticipare una serie di momenti poetici affidati ad oggetti captati intenzionalmente dalla mdp, scevri da retorica, nonostante l'insistenza avvertita. E subito dopo vengono elencate: la perdita delle scarpe dal verduriere, la figura del cieco (luogo comune del cinema iraniano), la famiglia in ristrettezze, la madre incinta e il padre irritabile, che scambiandosi discorsi estranei ai dialoghi e agli sguardi del resto del film accentuano la loro distanza dalla dimensione infantile, presupposto del primo sguardo e di tutti i punti di vista della pellicola, ai quali invece lo spettatore è invitato ad aderire e a cogliere dall'interno di quel mondo. Tutto viene narrato in brevissimi quadri, poi, una volta sbrigata la pratica della trama, gli autori si abbandonano allo stato d'animo dei ragazzini; a cominciare dal mirabile scambio di frasi tra i due fratelli vergate su un foglio, fingendo di svolgere i compiti sotto l'occhio ignaro dei genitori: la macchina da presa agisce ad altezza dei bambini accucciati sui tappeti - bellissimi per noi l'esotismo degli interni, curati e a disposizione della narrazione come ulteriori elementi narrativi. Non è nemmeno una geniale espressione di una filosofia come l'altezza zen di Ozu: in questo caso il taglio basso delle riprese dei due bambini alternate alle plongée sui messaggi esprime il concetto di mondo a parte, fatto di apprensioni, complicità, decisioni e soprattutto lettura del mondo adulto che condiziona le scelte segrete dei bambini.
Venerdi 6 MARZO 21.30
BARAN
Titolo originale: Baran Nazione: Iran Anno: 2001 Genere: Drammatico Durata: 94' Regia: Majid Majidi Sito ufficiale: baran.cinemajidi.com
Cast: Zahra Bahrami, Hossein Abedini, Mohammad Amir Naji, Abbas Rahimi Produzione: Majid Majidi, Fouad Nahas
vers.orig. farsi sott. italiano
Lateef (Hossein Abedini), un ragazzo iraniano, lavora in un cantiere per conto di Memar Mohammad Reza Naji), uomo gentile ma avaro. Un giorno viene a lavorare Rahmat (Zahra Bahrami), un giovane afgano figlio di uno degli operai caduto da un impalcatura. A causa dell'inettitudine del novello, Lafeet perde il posto di riservo nelle grazie di Memar e costretto a semplice operaio. Dopo le prime piccole vendette nei confronti di Rahmat, Lateef scopre che l'afgano non è altro che una ragazza. Per il giovane cambia ogni prospettiva, si innamora della nobiltà della fanciulla, costretta a nascondersi per la sua sessualità e allo stesso tempo della sua forza nell'affrontare un lavoro da uomini. Un giorno arrivano gli ispettori del lavoro per assicurarsi che non ci siano afgani nel cantiere, in quanto definiti illegali. Rahmat è costretta a scappare ed, in una corsa contro il tempo, Lateef riesce a salvarla affrontando di petto gli ispettori. Rahmat così scompare e a Lateef non resta che cercarla al paese natio...
Nel 1979 l'Afghanistan è stato occupato dai sovietici, per questa ragione molte famiglie sono dovute scappare cercando rifugio nei vicini paesi, diventando così illegali in Iran. "Baran" è un film di Majid Majidi sulla condizione degli afgani in Iran e sull'amore fra due giovani e gli ostacoli che dovranno superare. A differenza del suo collega Kiarostami Majidi sembra più abile e scorrevole nella rappresentazione cinematografica, mettendo da parte noiosi intellettualismi. La prima parte del suo film tutta nel cantiere dove lavora Lateef, è affascinate, fra macerie, muri in costruzione e bidoni che sprigionano fuoco. La scena in cui si svela la vera identità di Rahmat, in penombra, attraverso un vetro opaco, mentre si pettina i capelli è rarefatta, intensa. Forse l'ultima parte della pellicola diventa un poco troppo simbolica, imprigionando il racconto e racchiudendo così la sua forza. Ma oltre a questo Baran è una finestra aperta su un altro pianeta, a differenza della nostra cultura che, se non abbiamo la maglietta firmata Adidas o il profumino di Calvin Klein, neanche usciamo di casa, e nei nostri cinema andiamo ad ammirare film su coppie borghesi che si sfasciano per una Monica Bellucci pagata suon di milioni per posare nuda su Play Boy. Vedere la storia di un ragazzo, cui l'unica cosa che vuole è poter guardare per un paio di secondi la donna amata negli occhi senza che il mondo lo schiacci con il suo peso enorme, non dovrebbe che farci riflettere.
INGRESSO libero SOCI ARCI